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    Il back to school che non mi aspettavo

    Quando varchi per l’ultima volta il cancello del tuo liceo pensi sia davvero l’ultima volta. Tutti sono lì a ripeterti che un giorno rimpiangerai il tempo della scuola e che sarai disposta a pagare oro per tornare indietro. E anche se in quel momento tu non ci credi, hanno ragione loro, ad un certo punto vorrai tornare indietro, anche solo per un’ora.

    E poi succede davvero, ma non come te lo aspettavi. Il tempo non è tornato indietro, sei tu che sei andata avanti, così avanti che sei tornata indietro, nel tuo liceo, come insegnante.

    Com’è insegnare nel tuo liceo? mi chiedono tutti, ma soprattutto le mie compagne di classe. Io rispondo: strano. Bello, sì, ma soprattutto strano.

    Mi sembra di essere finita in uno di quei film in cui la protagonista esprime un desiderio e il giorno dopo si sveglia di nuovo adolescente e torna al liceo per conquistare il ragazzino che non la filava ed essere una delle più cool dell’istituto. E questo film finisce e ricomincia ogni giorno.

    Ogni giorno, infatti, quando metto piede a scuola, ho una crisi di identità: chi sono io? Quanti anni ho? Devo essere interrogata o devo interrogare? E il più delle volte la risposta è meno semplice di quanto si possa pensare. Ogni giorno ho contemporaneamente quindici e trent’anni. Sono chiamata prof e chiamo prof i miei professori (e a nulla sono valsi i loro tentativi di essere chiamati per nome, non riesco e non voglio neanche). Ogni giorno ho paura e ne incuto a mia volta. Ogni giorno mi impegno come se fossi costantemente sotto esame, quello per il quale non saremo mai pronti abbastanza.

    La maturità.

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    La non replicabilità della bellezza

    Quando ero molto piccola, mi raccontano, un giorno osservando il mare dissi ai miei genitori: “Ho inventato una poesia. Ondeggia, ondeggia“. I miei genitori ne furono colpiti e mi lodarono molto. Io stessa, alla luce dei miei studi, riesco a cogliere un che di poetico in quella operetta naif.

    Fatto sta che, dopo qualche minuto, evidentemente galvanizzata dall’entusiasmo mostrato dai miei genitori, esclamai: “Ho inventato un’altra poesia. Ombrellone, ombrellone“. E no. Mia madre stroncò sul nascere quel susseguirsi di ‘Sdraio, sdraio’, ‘sabbia, sabbia’, ‘paletta, paletta’ che avrei inevitabilmente prodotto. Ondeggia, ondeggia aveva davvero qualcosa di poetico, Ombrellone, ombrellone, no. Non era altro che un misero tentativo di replicare la bellezza, per provare a ottenere le stesse lodi ricevute la prima volta.

    Mi è tornato in mente questo episodio osservando il catalogo delle innumerevoli piattaforme di streaming alle quali sono abbonata. Negli ultimi anni è stato tutto un tentativo di riportare in vita serie cult che hanno fatto la storia negli anni Novanta-Duemila. Il tutto accompagnato da articoli dai titoli sensazionalistici che annunciano la reunion del cast di tale serie o l’assenza di tale attrice, e che si nutrono della nostalgia che noi tutti abbiamo di quelle serie che hanno accompagnato le nostre vite.

    Parlo dei molto discussi rifacimenti dei cartoni Disney, di How I met your father (che si ricollega – solo nel titolo e nella struttura a cornice, ad essere onesti – ad How I met your mother) oppure a And just like that, che riprende le fila dell’iconico Sex and the City. O ancora ai diversi prequel, sequel, spin-off.

    E così noi, inguaribili romantici, ci proviamo. Cerchiamo disperatamente di appassionarci. Amiamo vedere di nuovo sullo schermo i nostri attori preferiti, anche se con qualche ruga in più. Ma la speranza di ritrovare l’antica magia, quella che ci aveva fatto battere i cuori nella nostra giovinezza, ci abbandona lentamente, lasciando il posto ad una delusione forse anche peggiore della tristezza che aveva accompagnato il finale di stagione e che stavamo ancora cercando di elaborare.

    È vero che nulla si crea dal nulla. Che la scrittura è riscrittura, che la composizione – come mi ha illuminato un collega di musica – si chiama così perché consiste nel comporre, nel mettere insieme, elementi che già esistono nella nostra memoria. Ma, fatte le dovute eccezioni di prodotti effettivamente ben riusciti e che adoro, credo che oggi siamo circondati di pallide imitazioni di opere d’arte, fantasmi di un passato glorioso che per forza di cose non può più tornare, di Ombrellone, ombrellone, che non hanno più nulla di Ondeggia, ondeggia.

    Mi chiedo, allora, perché ci troviamo in questo impasse. Forse perché la nostra fantasia è arrivata all’esaurimento come la batteria dei nostri smartphone alla fine di una lunga giornata? O forse preferiamo percorrere una strada sicura, già spianata da chi ci ha preceduto, piuttosto che avventurarci per un sentiero mai battuto?

    Più probabilmente ciò accade perché, una volta ottenuto del consenso, abbiamo bisogno di riceverne altro. E pensiamo che applicando la stessa struttura, con qualche minima variazione di tema, possiamo riuscirci con il minimo sforzo. Forse dovremmo invece metterci in pace con l’idea che la bellezza non è replicabile come un qualsiasi prodotto di massa. Che le cose di qualità sono poche e rare, in mezzo al marasma di mediocrità che ci circonda e che contribuiamo anche noi a formare per la maggior parte del tempo.

    Oggi – dove tutti scrivono libri e scattano fotografie e cantano canzoni – è ancora più difficile individuarle. Affinare il nostro fiuto, manutenere il nostro radar, diffidare dalle imitazioni è l’unico modo che abbiamo per riuscirci.

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    Ciò che i fari mi hanno insegnato

    Fino ad un anno fa credevo che i fari esistessero soltanto nei romanzi di baleniere o nelle metafore sulle amicizie di lunga data. Quando poi alla mia strada verso il lavoro si è sostituito il mare, l’ho visto: quel fascio di luce che taglia l’aria notturna e per un attimo ti fende lo sguardo, e quasi ti acceca. Ancora. E ancora. È il suo codice segreto per dirti: sei salvo, sei a casa.

    Fino ad un anno fa, pensavo che i fari appartenessero solo alle storie di vecchi dalla barba bianca e dal carattere burbero. Oggi i fari fanno parte anche della mia storia, della mia vita. Una vita da lupo di mare, come ho iniziato a dire per aggiungere un pizzico di drama alla faccenda. Una vita cioè fatta di tante albe e tanti tramonti, di poche e scomode ore di sonno, di marinai, corde e nodi, di scongiuri e preghiere, di tanta incertezza e altrettanta bellezza. E ogni volta che ripenserò a quella vita, mi tornerà quel nodo alla gola che ho provato quella mattina alle sei, mentre lasciavo il porto ancora immerso nel buio, con le cuffie nelle orecchie e il vento tra i capelli. Quando poi la nave prese il largo e sul Vesuvio che si allontanava spuntò un’alba commovente, io pensai a mille cose, alla mia e alle possibili vite, mentre il mare scorreva veloce sotto di me. E così imparai a fidarmi dei fari, non solo quelli che ti accolgono dopo una traversata, ma anche quelli che ti incoraggiano a lasciare il porto sicuro, a ritrovarti in alto mare, persino in balia delle onde, perché tanto loro saranno lì al tuo ritorno.

    Oggi, anche se non vedrò più fari ogni giorno, conserverò ciò che essi mi hanno insegnato. Che il tuo mare sia calmo o in burrasca, respira e aguzza lo sguardo. Da qualche parte c’è una luce che ti dice: sei salvo, sei a casa.

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    Possiamo diventare professori, ma non smettiamo di essere alunni

    C’è stato un tempo (sono abbastanza grande da averlo vissuto) dove sui social non c’erano i professori. Lo penso ogni volta che apro la sezione Ricordi di Facebook e resto interdetta davanti a episodi scolastici narrati con dovizia di particolari (talvolta nomi, cognomi, foto, disegni) dalla me studentessa di diversi anni fa. Rivedo me e le mie compagne di classe taggarci presso la scuola indicata con il geotag di un carcere, ci vedo sommerse dai dizionari di greco e latino, dalle calcolatrici-queste-sconosciute (ciao Varriale, se stai leggendo), o immortalate nell’atto di dare fuoco ad una pagina del nostro libro di storia. Resto basita da quanto fossi spudorata, all’epoca, a non censurare nessuno di questi ricordi… ma, dopotutto, quello era il tempo in cui sui social non c’erano i professori.
    Ora i professori siamo noi.

    E proprio ora non posso fare a meno di pensare a quanto fosse bella la condizione di studente, quanto fosse appagante ascoltare chi avesse qualcosa da insegnarmi ogni giorno. Oggi, invece, i professori siamo noi, e nel diventarlo (o nel dimostrare di esserlo diventato) ci dimentichiamo di continuare ad essere studenti. Facciamo a gara a chi sa già tutto, a chi sa come stanno veramente le cose. Abbiamo sempre opinioni originali e non ci prendiamo neanche la briga di ascoltare quelle degli altri: le sentiamo, ma non per accoglierle: per rispondere con un’opinione ancora più rivelatoria. Esperti di ogni branca dello scibile umano, minimizziamo il fatto che per essere bravi in qualcosa ci vuole il tempo e lo studio necessari, ma soprattutto ci vuole umiltà.
    Pensiamo di essere arrivati (ma dove?), e ripetiamo come un mantra “se sono dove sono ora (ma dove?), lo devo solo a me” come se questo fosse possibile. Quando abbiamo dimenticato di aver avuto dei maestri? Quando abbiamo deciso che non avevamo più nulla da imparare? Quando abbiamo iniziato a pensare di poterci sostituire agli esperti, ai ricercatori, a chi ha votato la propria vita alla conoscenza, per quanto parziale, di una disciplina? In altre parole, quando abbiamo smesso di essere alunni?
    Ci penso ora, ora che sono tornata al liceo anche se dall’altro lato della cattedra: un posto dove interrogazioni, esami, compiti in classe e verifiche a sorpresa è la vita che li sottopone a me, giorno dopo giorno. Ed è stato proprio quando hanno cominciato a chiamarmi prof che ho riscoperto in me un’alunna sempre giovane.
    E penso che possiamo anche diventare professori, ma non possiamo e non dobbiamo mai smettere di essere studenti. Che puoi lasciare la scuola, ma la scuola – se glielo permetti – non lascerà mai te.

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    All too well e altri ritorni insperati

    Per chi si fosse perso questa notizia, Taylor Swift è impegnata in un’operazione di ri-registrazione dei suoi primi album per rivendicare i diritti sulla sua musica, quella che ha scritto nella sua cameretta più di dieci anni fa e che più di dieci anni fa ascoltavo io nella mia. Un’operazione direi archeologica, capace di scavare nel passato e far riaffiorare tesori sepolti, messaggi nella bottiglia provenienti da qualche luogo inesplorato del cuore.

    A qualche settimana fa risale l’uscita di Red (Taylor’s Version), un album che come preannuncia il titolo è fatto di amori a tinte rosse, passionali quanto tormentati, amori ventenni per sempre. Ed è saltato subito agli occhi che nel nuovo-vecchio Red c’era tutto così come lo ricordavamo, ma c’era anche dell’altro, qualcosa che l’ultima volta non c’era. Una traccia di All too well lunga dieci minuti, contro i 5:30 che la memoria rimandava anche al più sfegatato dei fan.

    La prima cosa che pensi è: dieci minuti sono tanti, forse troppi stando agli standard socialmente accettati. La seconda è che non sai cosa aspettarti da quegli sconosciuti cinque minuti in più. Ma ormai hai già cliccato play.

    Ascoltare la nuova All too well è come incontrare una vecchia amica, una delle tue preferite, che avevi perso di vista per un po’. Averci a che fare dopo tanto tempo vuol dire ritrovare qualcosa che conoscevi profondamente ma anche accettare il fatto che ci sono pezzi di lei che ti mancano. Che ci sono nuove – tante – parole da ascoltare, c’è una nuova melodia da imparare, c’è un mondo da accogliere facendo spazio nel tuo. Inizialmente sarai colto da una sensazione contraddittoria di familiarità e estraneità che ti metterà il cuore a soqquadro. Ma arriverà un giorno, non troppo lontano, in cui ti sorprenderai ad ascoltare quella canzone alla radio e a cantarla a squarciagola, con la stessa passione di quando avevi vent’anni. E anche se una parte di te conserverà sempre lo stupore di quel ritorno insperato, ormai non potresti immaginare la tua vita senza ognuno di quei dieci minuti. Ora che va tutto troppo bene

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    La gioia segreta di fine estate

    C’è un momento, alla fine dell’estate, dove nel mezzo della nostalgia del rientro mi assale una gioia inaspettata. La gioia semplice di tornare a casa. Quella rilassante di dormire nel proprio letto. La gioia sincera del bidet. Del profumo di bucato. Quella rassicurante di riprendere le fila di quel libro che avevo lasciato a metà perché c’era ancora troppo da leggere prima della partenza ma troppo poco per portarmelo in viaggio. La gioia fiduciosa delle liste di cose da fare, che domani è pur sempre settembre. Dei conti da chiudere, delle porte da aprire. Dei negozianti che tolgono il cartello delle ferie.  La gioia vera dei caffè con gli amici che tornano in città dalle più svariate parti del mondo o con quelli che ti stavano aspettando, conservandoti il posto. La gioia segreta e non instagrammabile della normalità, e dello sforzo quotidiano di difenderla dall’indifferenza.

    Ho sempre provato una specie di vergogna nella gioia che sentivo alla fine delle vacanze invece di una più sana e più socialmente accettabile noia. E per questo quella gioia l’ho tenuta sempre nascosta, ne ho goduto privatamente o confidandola con estrema cautela a qualche altro pazzo come me.

    Oggi no, oggi faccio #comingout: che bello partire, ma che bello tornare.

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    «Niente posta la domenica». La lezione di zio Vernon nell’era dello smartworking

    Se zio Vernon lavorasse in smartworking insegnerebbe a tutti noi, lavoratori ai tempi del Covid, una regola semplice quanto sacrosanta: niente posta la domenica. E non parlo di lettere di convocazione per scuole di magia né di comunicazioni (altrettanto) urgenti: parlo di messaggi, videocall e telefonate di lavoro − gufi bizzarri e stralunati del 2020 − che arrivano a tutte le ore del giorno e della notte, weekend incluso. Niente posta la domenica: è il manifesto di zio Vernon. È l’educazione che stiamo perdendo da quando le nostre stanze non hanno più pareti ma sono diventate uffici, aule, sale riunioni aperte h24 e soprattutto sotto gli occhi di tutti. Come se questo nuovo modo di lavorare, che tra i vantaggi ha quello di non far fermare il mondo nonostante una pandemia in corso, bastasse da solo ad autorizzarci a dimenticare quelle forme di rispetto che sosteniamo (e anche con un certo orgoglio) ci abbiano trasmesso le nostre famiglie. Tanto è solo un Whatsapp. Tanto lo leggi quando puoi. O ancora, la più blasonata: tanto stai a casa. Il problema è che ormai noi stiamo a casa, ma è la nostra casa − o quella che consideriamo tale, la nostra comfort zone − ad essere altrove.

    C’è un posto bellissimo dove il dentro e il fuori non si confondono tra loro,
    dove so esattamente dove finiscono gli altri e inizio io,
    dove riesco a staccare per davvero.
    C’è un posto bellissimo dove riconosco i confini tra il pubblico e il privato,
    dove non mi assale l’ansia di non essere connessa o di esserlo troppo.

    C’è un posto bellissimo che si chiama offline.
    E dove la domenica ci permettiamo il lusso di diventare un po’ zio Vernon.

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    Da casa mia a casa vostra: la ricetta della pizza napoletana fatta in casa

    Da quando ho postato alcune stories sabato scorso, me l’avete chiesta in tanti e chi non me l’ha chiesta mente o è un pizzaiolo.
    Perché non so quante cose potremmo imparare da questa pandemia, ma di certo possiamo imparare a fare la pizza napoletana in casa. E qui, in questa casa, di sabato sera mentre danno Conte alla tv sforniamo margherite come se non ci fosse un domani: perché se zona rossa dev’essere, ci sia almeno anche un po’ di mozzarella e basilico fresco a renderla più tollerabile. Così, durante questo assurdo 2020, di quarantena in quarantena, di dpcm in dpcm, abbiamo impastato, aspettato, condito, infornato e gustato pizze fatte in casa sempre più saporite e anche sempre più belle, a dirla tutta. Ed eccomi qui, a condividere con voi – napoletani e non che seguite questo blog – la ricetta magica di Rosina, ovvero mia mamma.

    Ecco di cosa avete bisogno per l’impasto (per circa 10 pizze medie):

    1 kg di farina 0
    200 g di farina integrale
    7 g di lievito di birra
    1 cucchiaino di zucchero (per attivare il lievito)
    20 g di sale
    700 g (circa) di acqua tiepida

    Come utensili, invece, avrete bisogno di:

    Una tazza per l’acqua
    Una padella antiaderente
    Un piatto/vassoio che può andare in forno
    Una palettina

    Disponete sul piano di lavoro – preferibilmente in legno − le due tipologie di farina a fontana. Al centro, aggiungete il lievito, un cucchiaino di zucchero e un poco d’acqua, e mischiate il composto con le mani. A parte, in una tazza, mettete un altro poco d’acqua e il sale, fino a far sciogliere quest’ultimo: aggiungete il tutto al centro della fontana, verso il quale porterete sempre più farina. Man mano aggiungete anche il resto dell’acqua, un poco alla volta: fatela penetrare nella pasta praticando delle pressioni con le mani a pugno chiuso, alternate ai movimenti tipici dell’impastare. Lavorate l’impasto fino a quando non sarà liscio. Mettete il panetto che verrà fuori in una ciotola grande leggermente oliata, e coprite con pellicola. Lasciate riposare la ‘creatura’ per almeno dieci ore, in luogo caldo. Trascorso il tempo necessario, noterete che l’impasto sarà più che raddoppiato in volume: trasferitelo sul piano di lavoro e dividetelo in pagnottelle tutte uguali, che dovranno lievitare per un’altra oretta. Nel frattempo, potrete preparare gli ingredienti per il condimento a vostro piacere.
    Trascorsa il tempo necessario, sul piano di lavoro ben infarinato stendete, rigorosamente con le mani, ciascuna pagnottella fino a farla diventare un disco sottile, che adagerete nella padella ben calda, su fuoco vivace. Condite a piacere. Dopo qualche minuto, con l’aiuto di una palettina, accertatevi che la parte di sotto sia cotta e colorita. A quel punto trasferite la pizza sul piatto/vassoio, che metterete nel forno (ventilato, in modalità grill, a 250°) quanto più in alto possibile, vicino al grill: come si suol dire, dalla padella alla brace. Lasciate cuocere per alcuni minuti, fino a quando il cornicione assumerà il tipico colore brunito. A quel punto, con la stessa soddisfazione di Cico e Stefano in Fuori nevica, servite la pizza in tavola con un sonoro “Buon appetito!”: vedrete che dal primo morso vi sembrerà di sentire il suono del mandolino e la voce di un posteggiatore. E sarà un po’ come stare tra le vie colorate, e non solo di rosso, di Napoli.

    E per finire…

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    Cosa mi ha insegnato la polaroid

    La polaroid mi aiuta a tenere allenata quella capacità di riconoscere la bellezza che è propria dei bambini, dei puri di cuore e dei turisti. Di valutare il grado di irreplicabilità delle cose in un tempo in cui abbiamo tutto il mondo in una mano ma poi non lo afferriamo mai davvero.
    La polaroid mi insegna ad essere consapevole che il fallimento ha un prezzo ma anche il coraggio ne ha uno e quel prezzo (oltre a quello della pellicola) si chiama rischio: il rischio che una foto venga storta, che venga sbilanciata, che venga sovraesposta. Il rischio che venga bellissima.
    La polaroid è istantanea come alcuni amori ma allo stesso tempo ci ricorda che l’attesa è un’esperienza che vale la pena di essere goduta: quel periodo di tempo in cui, nel bel mezzo del bianco assoluto, emergono colori insperati. Quell’emozione palpitante di quando tutto sta per accadere ma ancora non è.
    La polaroid mi fa recuperare quella memoria tattile che col tempo stiamo riducendo a uno sfiorare sempre lo stesso schermo: i miei ricordi li voglio poter sparpagliare, incorniciare, regalare, chiudere in una scatola o usare come segnalibro. E soprattutto li voglio lì, impressi su un quadrato di carta, e in quanto tale soggetto al tempo, alla perdita e alle intemperie: proprio come noi. Ma che, proprio come noi, può essere salvato dalla cura e dalla consapevolezza del suo valore.

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    Prove tecniche di un lunedì (stra)ordinario

    Dal mio balcone su Napoli e da quella finestra sul mondo che è il mio smartphone ho assistito oggi – lunedì 18 maggio – al ritorno alla normalità di ogni cosa. L’alzata delle saracinesche è stata carica di un entusiasmo euforico misto a incertezza forse adolescenziale, ma sicuramente commovente. Il ritorno dei traffici e dei barbieri ci ha riportati per un attimo alla nostra vita di prima. E persino le moke, quelle un po’ più grandi, sono tornate a fare caffè per gli amici. Questa mattina non abbiamo scoperto se siamo diventati migliori o peggiori (questa poi è una scoperta di cui ognuno di noi farà esperienza quando deciderà cosa farsene, delle recenti prese di consapevolezza), ma abbiamo certamente scoperto che siamo diversi. Perché credere che la nostra vita, quella che conoscevamo bene – e che ci stava stretta, soprattutto di lunedì mattina – sia ricominciata dal punto esatto in cui si sia fermata due mesi fa o poco più, o anche solo credere che la vita si sia fermata, sarebbe un errore di valutazione grossolano sul presente nonché un approccio troppo pigro all’immediato futuro. Non ci siamo mai fermati, anzi: non siamo mai così cambiati come in questi ultimi due mesi, anche soltanto nella nostra concezione di normalità. E quando anche il più ordinario lunedì tornerà, alcuni di noi non solo lo ameranno, ma si accorgeranno di averlo sempre amato.

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    Quel mostro chiamato noia

    Stiamo facendo programmi per quando tutto questo finirà. Stiamo usando parole nuove, o almeno tali nel nostro vocabolario quotidiano: assembramento, pandemia, quarantena. Stiamo ridefinendo il significato di quelle vecchie, di quelle facili: libertà, casa, abbraccio. Tempo. Stiamo sbirciando negli interni delle case dei nostri amici e dei nostri datori di lavoro. Stiamo facendo torte. Stiamo attingendo alla nostra creatività più vivace pur di sentirci più vicini e più coraggiosi. Stiamo cambiando, in meglio o in peggio lo scopriremo poi. Stiamo benedicendo l’internet e i social network, che questa volta – per una volta! – ci stanno rendendo più sociali. Stiamo aprendo i cassetti per controllare se i nostri sogni stiano ancora lì. Stiamo assistendo a concerti, letture e sante messe in diretta streaming. Ci stiamo affacciando ai balconi, e forse non lo facevamo da un po’. Qualcuno di noi sta pregando, tutti stiamo rivolgendo un pensiero pieno di gratitudine a chi, là fuori, sta combattendo. Stiamo riscoprendo una vita homemade. Stiamo leggendo, tanto. Stiamo collezionando meme. Alcuni lo stanno diventando, dei meme. Ci stiamo videochiamando senza il timore di farci vedere brutti nei nostri outfit improponibili. Stiamo sentendo la mancanza di ciò che avevamo e anche di ciò che non credevamo di avere. Stiamo facendo pulizie radicali e ritrovando cimeli che avevamo dato per dispersi. E sì, stiamo facendo esperienza della noia.